OROLOGI DELL' AVVENTURA, SWISSE WATCHES

STORIA DEL ROLEX DAYTONA E DI SIR MALCOM CAMPBELL

È arrivato per me il momento di parlare di un altro orologio che è una icona universale, e che rientra nella categoria di Orologi dell’ Avventura non propriamente per meriti sul campo (sebbene sia stato indossato in pista, da Paul Newman fra gli altri), ma piuttosto come orologio volto a celebrare un evento o, in questo caso, un luogo simbolo per un certo tipo di uomini d’azione. È la stessa cosa che abbiamo già visto in questo stesso blog con il Rolex Explorer,  nato come oggetto celebrativo alla conquista dell’ Everest e che invece, complice il marketing e la stessa importanza del marchio, è diventato per tutti l’ Orologio che è stato sull’ Everest, a discapito di chi in quella spedizione c’era veramente, ossia gli Smith ed un altro Rolex, questo sì un vero orologio per avventurieri, almeno nella prima metà del XX secolo: il Rolex Oyster, indossato anche dallo stesso Malcom Campbell durante tutte le sue gare. Per chi volesse approfondire circa la conquista dell’ Everest e circa il Rolex Explorer, il rimando è all’ articolo proprio: https://adventurewatches.wordpress.com/2019/06/17/rolex-explorer-e-conquista-dell-everest/, mentre per ciò che concerne i vari Smith ed Oyster e tutti gli altri meno conosciuti, mi riservo di parlarne senz’altro in futuro, e sarà proprio allora che, secondo le mie aspettative, questo blog dovrebbe entrare nel vivo. Oggi è però necessario cominciare con orologi più conosciuti ed iconici sia per una questione di algoritmi di ricerca, che per una questione pratica di visibilità. Ma anche, e non meno importante, per una questione mia personale di preparazione.

Il Rolex Oyster (Perpetual) Cosmograph Daytona nacque ufficialmente nel 1963 come cronografo professionale per piloti da corse automobilistiche. Oggi le sue caratteristiche peculiari sono la lunetta in ceramica (Cerachrom) con scala tachimetrica, I pulsantini avvitabili ed un calibro automatico  di manifattura denominato 4130, con riserva di carica fino a 72 ore data da una molla di carica più grande rispetto al passato. La cronografia viene azionata da ruota a colonne. Naturalmente questo orologio ha subito tante modifiche dal 1963 ad oggi come molte sono le varianti.

Il nome Daytona omaggia la pista automobilistica di Daytona Beach, in Florida, molto famosa anche in virtù degli 80 record di velocità, 14 mondiali, ivi stabiliti negli anni che vanno dal 1903 al 1905. Dal 1959 venne inaugurata la nuova pista Daytona International Speedway, dove ancora oggi si corre la Rolex 24h at Daytona, più semplicemente nota come The Rolex. professional-watches-daytona-race_dayt18sc_04262_portrait

Va detto che, come ovvio, la Rolex produceva cronografi già da prima del Daytona. La loro produzione effettiva cominciò verso la metà degli anni ’30. Come detto, il primo vero Daytona riconosciuto ed accettato come tale, fu costruito nel 1963 e la sua referenza era la 6239, ma occorre segnalare un altra referenza, ben conosciuta da collezionisti ed appassionati, che apparve nel 1961 e che, sia esteticamente che tecnicamente, era molto simile alla 6239: trattasi della referenza 6238, da tutti conosciuta come la pre-Daytona.

Tornando alla 6239, essa venne prodotta fino al 1968. Aveva pulsanti a pompa e lunetta con tachimetro in oro o in acciaio. Nei primissimi esemplari la scala tachimetrica era suddivisa in 300 unità/tempo, ma venne quasi subito abbassata a 200 nei pezzi a seguire.professional-watches-cosmograph-daytona-1960_33_first_cosmograph_daytona_1965_portrait Il quadrante era molto incentrato sul contrasto cromatico fra i contatori ed il resto del dial (il cosiddetto “panda”), e la famosissima scritta rossa “Daytona” in realtà su questa prima referenza appariva solamente negli orologi destinati al mercato americano. Il movimento era il Valjoux 72B, a carica manuale, a cui Rolex apportò le sue modifiche rinominandolo Rolex 722. Questo, per l’epoca, nuovo cronografo, venne accolto assai freddamente dal pubblico, tanto che nel 1965 gli venne affiancata la referenza 6240, che si differenziava sia nella lunetta in plastica, sia nei tasti e nella corona non più a pressione ma a vite. Venne inoltre aggiunta sul quadrante la dicitura “Oyster”. Tuttavia questa versione fu snobbata anche più della prima, ed i pochi possessori lamentavano la sua ingombranza ed il fatto che i nuovi tasti avvitabili rovinassero i polsini delle camicie. 20200324_161836

Passando dal 1969 con la referenza 6241, arriviamo agli anni ’70 ed ’80 in cui si accavallarono e si succedettero diverse versioni, ma comunque sempre a carica manuale. Nelle referenze 6262 e 6264 il calibro 722 lasciò il posto al 727, un calibro sempre di derivazione Valjoux. Tornarono i tasti a pompa e nelle referenze 6263 e 6265 l’ impermeabilità venne aumentata fino a 100mt. La sostanziale differenza del nuovo calibro 727 rispetto al suo predecessore era la frequenza di 21.600 alternanze contro le 18.000 del 722. I calibri incassati nei modelli in oro furono certificati COSC e tale qualità, ancora molto rara nei crono, venne rimarcata scrivendolo, nei modelli in oro appunto, ad ore 12. Inoltre cominciarono a vedersi le prime “pacchianerie” come diamanti e zaffiri, ad esempio nella referenza 6270.20200324_161933 Da segnalare i famosi quadranti Paul Newman contraddistinti dal netto effetto panda e dai contatori realizzati con un quasi impercettibile dislivello. Anche i Paul Newman rimasero a prendere polvere dai concessionari per lunghi anni. Quasi nessuno li voleva e fu solo nel momento in cui i collezionisti li rivalutarono che raggiunsero il successo e le cifre folli che oggi tutti possiamo constatare.20200324_162022

Dal 1988 avvenne una prima vera rivoluzione nel meccanismo dei Daytona. A partire dalla referenza 16520 venne adottato un calibro non più a carica manuale, ma automatico. Partendo dal calibro 400 El Primero, di fornitura Zenith, si ottenne il Rolex 4030. Le modifiche più importanti apportate da Rolex furono la riduzione delle alternanze, che furono portate da 36.000 a 28.800; nuovi dadi di regolazione; spirale Breguet e carica automatica di tipo Perpetual. Il nuovo Daytona, detto anche Daytona-El Primero si avvalse della certificazione COSC, come indicato dalla scritta sul quadrante: Superlative Chronometer Officially Certified. Le modifiche estetiche più evidenti furono nella scala tachimetrica incisa sulla lunetta e nei pulsanti a vite, così come la corona. I quadranti disponibili erano in due versioni cromatiche: bianchi oppure neri, con subquadranti a contrasto. Oltre che alla versione in acciaio, erano sul mercato anche la referenza in acciaio-oro o completamente in oro. La produzione del Daytona-El Primero continuò fino al 2000, quando venne definitivamente interrotta per far spazio alle nuove referenze a sei cifre.

La prima referenza del nuovo corso fu la 116520, interamente prodotta in house, a partire proprio dal nuovo movimento, anch’esso automatico: il 4131, sempre certificato COSC, 28.800 alternanze e spirale di tipo Parachrom. La disposizione della corona e dei pulsanti era, seppur impercettibilmente, variata. I contatori rialzati, gli indici più corti, il rehaut interno che portava inciso il marchio Rolex ed il numero di serie, ed il bracciale che era di tipo oyster. Persino nei materiali si ricorse a qualcosa di inedito e brevettato appositamente: la cassa era costruita in una nuova lega di acciaio con il 4% di molibdeno e denominata 904L, creato in esclusiva per Rolex dalle acciaierie del gruppo Tyssen. Ormai il Daytona era diventato il mito che conosciamo. Non più un orologio, per quanto importante, iconico e costoso, desiderato per la sua storia, la sua qualità e, perché no, per il suo brand. Ormai Rolex è status symbol, ed il nuovo Daytona è il nonplus ultra agli occhi sì di molti intenditori, ma sopratutto agli occhi di coloro che io chiamo “burini arricchiti (o burini finti arricchiti)”, che magari indossano con la stessa nonchalance un orologio falso ed uno da 50mila euro, purché sul quadrante ci sia un logo a forma di corona ed il marchio “Rolex”. E la casa ginevrina sembra dal canto suo incoraggiare proprio questo target, come si evince non solo dalla strategia commerciale e produttiva ma anche dalle tante versioni di Daytona-Sei Cifre con pietre preziose. In occasione del 50esimo anniversario di questo cronografo venne prodotto il primo Daytona in platino, nel 2013.

Sir MALCOM CAMPBELL (11-3-1885/31-12-1948)professional-watches-history-malcolm-campbell_3328568_portrait

L’eroe legato a questo orologio, pioniere delle corse automobilistiche e dei record di velocità su veicoli a motore, in pista terrestre prima ed acquatica dopo, è Malcom Campbell. Che, come detto, in realtà non avrebbe mai potuto indossare un Rolex Daytona, dal momento che visse qualche decennio prima. Un Rolex comunque lo indossava: il classico Oyster molto in voga a quei tempi fra sportivi estremi. Ed alla pista di Daytona, che in seguito darà il nome al cronografo in questione, legò gran parte della sua carriera sportiva, dove corse alcune fra le gare più importanti della sua vita, vivendo grandi gioie e terribili perdite come quella dell’amico e rivale Frank Lockhart al termine di una gara epica.professional-watches-history-daytona-beach-record_corbis-u294619acme_portrait

Malcom Campbell non era un pilota professionista, a quei tempi era impensabile vivere di corse automobilistiche. Sfruttò inizialmente il patrimonio di famiglia, e successivamente la professione di commerciante prima, e di ufficiale dell’ Esercito di sua Maestà poi. Alla luce di ciò, le sue imprese assumono maggior valore in quanto compiute da dilettante. La famiglia di origine era agiata, dedita al commercio di diamanti, e lui ne era figlio unico. La passione per la velocità lo mise nei guai fin nella prima infanzia, quando, insieme al suo amico e anche lui futuro pilota Sammy Davis, si lanciarono con una rudimentale bicicletta da una collina, mettendo in pericolo numerosi passanti. La bravata gli costò un richiamo ufficiale in un tribunale minorile. Dopo il diploma, il padre, al fine di dare un pò di disciplina al figlio scavezzacollo, lo mandò a lavorare gratuitamente ai Lloyd’s, quello che oggi chiameremmo “tirocinio non retribuito”. Ma, insoddisfatto, si trasferì da parenti in Germania dove iniziò ad imparare anche lui il commercio di diamanti. Coi guadagni poté partecipare alle prime corse in moto. Acquistò la prima nel 1902 e nel 1906 vinse la Londra-Edimburgo, ripetendosi nel 1907 e nel 1908. Nel 1909 costruì due aerei. Uno riuscì a farlo volare, andandosi a schiantare e distruggendolo completamente. Essendo gli aerei troppo onerosi anche per un buon commerciante come lui, passò dunque alle automobili. La sua prima auto fu una Renault 30HP, con cui corse per la prima volta a Brooklands. In seguito acquistò una Darraq da 34cv che battezzò “The Flapper”. Fu la macchina che gli regalò la prima vittoria nel 1910. Darracq_at_1906_Vanderbilt_CupDopodiché acquistò una Peugeot ed una Darraq Sunbeam quasi nuova. In seguito ebbe a dire che la Peugeot gli aveva portato fortuna, e la Darraq solo guai. Forse era ironico, perché la Darraq fu per lui come un destriero che lo accompagnò verso la gloria. Era dotata di motori da 10.500cm3 per una potenza di 60hp. Inizialmente battezzata come “The Flapper II”, quando assistette ad una opera teatrale chiamata “The Blue Bird”, la ridipinse di blu e la battezzò The Blue Bird. Era appena nata una leggenda! 220px-Beaulieu_National_Motor_Museum_Sunbeam_350_pk_15-10-2011_13-00-32

Dal 1910 in poi cominciò anche a diventare azionista dei GP in cui correva. Nel 1912 ebbe il suo primo incidente a Brooklands: perse simultaneamente una ruota anteriore ed una posteriore, riuscendo tuttavia a riportare la macchina ai box. Nel 1913, ancora a Brooklands, vinse la 100 miglia.

Nel 1914, in occasione della prima guerra mondiale, entrò nell’esercito, nel quale avrebbe servito per tutta la vita. Inizialmente fu assegnato  al Queen’s Own Total Kent Regiment, nelle cui fila combatté la Battaglia di Mons, per poi passare alla RAF, dove ottenne il grado di maggiore ma, malgrado la sua competenza e passione per gli aerei, non venne ritenuto idoneo ai caccia da combattimento, e fu quindi assegnato a voli di rifornimento.

Gli anni successivi alla fine del primo conflitto mondiale videro il nostro dedicarsi maggiormente alla vita privata. Nel 1920 infatti convolò a seconde nozze e mise su famiglia, avendo due figli. Donald, il primogenito, seguì le orme paterne diventando anch’egli pilota e morendo in pista nel 1967. Anche la figlia di Donald, Gina, si dedicò per qualche tempo alle gare di velocità con scafi in acqua. Quanto a sir Malcom, la famiglia non gli impediva certo di correre, anzi, fu nel 1922 che battè per la sua prima volta un record di velocità, che all’epoca era di 133 miglia/h, ma non fu omologato dai giudici e quindi non è un record ufficiale. Stesso discorso a Fanø: record battuto, ma non omologato dai giudici. Sempre a Fanø, nel 1924, prima della gara ebbe molto a lamentarsi coi giudici perché a suo dire la pista era pessima ed il pubblico troppo accalcato alla strada. Tuttavia alla fine accettò di correre e, per un tragico scherzo del destino, fu proprio la sua auto a perdere per due volte la stessa ruota che, alla seconda volta, colpì in pieno un ragazzino di 14 anni, uccidendolo.

Passò i restanti mesi del 1924 in officina, a migliorare la BlueBird, e finalmente, il 25 settembre, stabilì il record di velocità, stavolta ufficiale, a Pendine Sands: 146,16 miles/h, pari a 235,17 km/h. A luglio del 1925 innalzò il suo stesso record a 150,8 miles/h, ma appena nel marzo del 1926 Henry Seagrave lo battè.

Campbell decise pertanto di progettare personalmente una nuova vettura, con l’ausilio dell’ingegnere Napier: la Napier-Campbell, partendo dal telaio della Blue Bird, che divenne dunque la Blue Bird II.  Proprio nel 1926 il record di velocità venne infranto varie volte,mentre Campbell lo passò tutto lontano dalle piste, intento a perfezionare la Napier-Campbell.

Il suo ritorno in pista, che coincideva ovviamente con il debutto ufficiale della nuova vettura, si ebbe il 4 febbraio 1927 a Pendine Sands. Corse ed alla prima gara si riprese il primato mondiale, stabilendo un nuovo record di velocità: 174,88 miles/h, pari a 281,44 km/h. Nella seconda gara il pilota, e precedente record-man, Parry-Thomas, fu assolutamente determinato a stabilire lui un nuovo record ma purtroppo perse il controllo della vettura andando a perdere la vita. Campbell accusò molto male questa tragedia, e giurò a se stesso che mai più avrebbe corso a Pendine Sands.

Il 29 Marzo 1927, a Daytona Beach,  fu un altro grande pilota ad infrangere il record: Seagrave. Erano quelli anni di enormi progressi tecnologici. In ambito automobilistico si succedevano a ripetizione nuovi prototipi e ciò faceva sì che il mondo delle corse fosse totalmente coinvolto da questa ansia adrenalinica di migliorare ed essere i primi in qualcosa. Per i piloti era ormai un’ossessione: ad ogni gara ognuno di loro non solo si aspettava di vincere. Vincere non bastava. Quello che realmente contava era stabilire nuovi record. Vedere il proprio nome associato ad un primato da lasciare ai posteri. Ma i primati venivano infranti al ritmo di ogni gara. Campbell dal canto suo era forse il più ossessionato dalla velocità, ed essere uno dei tanti non gli bastava. Voleva assolutamente riprendersi il record e a tale scopo sfruttò la sua posizione di pilota militare per farsi concedere dal Ministero dell’Aeronautica il motore dell’ idrocorsa Submarine S5: un W12 da 875 cavalli. Ancora una volta la sua vettura subì sostanziali modifiche, tanto da essere rinominata BlueBird III. Malcolm_Campbell,_Pendine,_January_1927_(Our_Generation,_1938)

Il 19 febbraio 1928 cominciò una annata epica per le corse. A Daytona Beach si sfidavano per la prima volta Lord Campbell con la sua nuova BlueBird III; Ray Keech sulla White Triplex Special Frank Lockhart alla guida della Stutz Black Hawk Special. In quella prima gara fu Campbell a vincere e segnare il nuovo record: 206,95 miles/h (333,05 km/h).

Il 22 aprile fu Ray Keech a vincere la corsa e segnare il nuovo record: 207,55 miles/h pari a 334,95 km/h. A Daytona Beach.

Il 25 Aprile, alla prima corsa di quella gara, fu Frank Lockhart a vincere, senza tuttavia battere il record per soli 7 km/h. Alla seconda corsa Lockhart era di nuovo in testa quando un suo pneumatico esplose, l’ auto si ribaltò e per lo sfortunato atleta non ci fu purtroppo niente da fare. Era la pista di Daytona Beach. professional-watches_cosmograph-daytona-bluebird_1930_race_campbell_prod_portrait

Nel 1929 Campbell e Napier progettarono una nuova vettura. Intorno al potente motore della BlueBird III era loro intenzione fabbricare una carrozzeria che sfruttasse al massimo i principi conosciuti dell’ aerodinamica. La vettura fu costruita nei cantieri Arrolaster e venne pertanto battezzata come Campbell-Napier-Arrolaster. Con questa macchina Campbell intendeva correre esclusivamente per stabilire nuovi record di velocità. Per far ciò aveva bisogno di una pista, che cercò in Africa, effettuando vari voli di ricognizione in elicottero. Dopo diversi problemi e pericoli scampati, come l’essere fuggito per poco a dei tuareg ostili in Mali, dove aveva trovato la sua pista ma senza poterla utilizzare, scelse la salina di Verneukpan, in Sudafrica. I giorni di preparativi furono travagliati. Campbell si schiantò col suo piccolo aereo, senza comunque riportare danni seri. La vita nel campo era resa dura dai 42°C di media, da animali velenosi come serpenti e scorpioni, e dalle condizioni climatiche estreme di quel posto.

Finalmente a marzo, dopo oltre un mese di lavori, il campo fu pronto, ma la pista lasciava molto a desiderare: il vento creava dei turbini di polvere ed il sole, come anche il gran caldo, davano miraggi. Dal terreno spuntavano in continuazione pietre molto affilate e le buche lasciate da quelle che si riusciva a togliere non vennero chiuse. Su un tale terreno era sufficiente una minima incertezza, anche una mano non abbastanza ferma nel tenere il volante, per andare incontro a morte sicura. Intanto, ad innalzare ulteriormente il livello di difficoltà, ci si mise Seagrave che l’11 marzo segnò il nuovo record: 231,36 miles/h (372,34 km/h). Alla fine Campbell corse, ma non riuscì a battere il record assoluto.

Deluso da questo insuccesso, Campbell riportò la vettura in patria dove venne ancora una volta sottoposta a pesanti modifiche: nuovo motore Napier-Lion da 1450 cv sovralimentato e nuovo assetto aerodinamico. L’auto venne chiamata Campbell-Railton BlueBird ed il 22/2/1933, ancora una volta a Daytona Beach, si riprese il record assoluto di velocità toccando le 272,46 miglia/h (438,39 km/h). Dopo questo record si prese ben due anni di pausa dalle gare col solo intento di migliorare ulteriormente la vettura e, il 7 marzo 1935 a Daytona portò il record a 276,82 mil/h, pari a 445,40 km/h. Ma il suo vero obiettivo non era più essere semplicemente il numero uno. Lui voleva ora essere il primo uomo al mondo a superare le 300 miglia orarie, ovviamente su pista. E così,  stavolta nella piana di Bonneville, il 3 Settembre 1935, stabilì il primato inseguito per tutta una vita: 301,82 miglia orarie, corrispondenti a 445,40 km/h.

Dopo questo risultato, Sir Campbell si ritirò dalle corse automobilistiche, ma semplicemente per dedicarsi alle gare su natanti. Si fece costruire un idroplano, ci montò il motore della sua ultima auto e lo chiamò BlueBird K3. Blue_Bird_K3 Anche in questo mondo vinse e stabilì dei record, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in cui gli venne assegnato l’altissimo onore di comandare il contingente incaricato dell’evacuazione, della Regina e di tutta la Famiglia Reale, nel caso di invasione nazista.

Al termine della guerra ritornò a gareggiare con le barche, ma la sua non era più competitiva e, ormai stanco ed appagato, si ritirò per sempre. Oltre che essere pilota e soldato, Sir Campbell si dedicò marginalmente alla politica e scrisse 5 libri autobiografici: My Great Adventure Speed (1931); The Romance of Motor Racing (1936); The Pearl From The Air (1937); The Road and The Problem of Their Safety (1937); My Thirty Years of Speed (1937). Morì il 31 dicembre del 1948 per emorragia cerebrale e fu sepolto a Chislehurst, nella chiesa di St. Nicholas. Sir_Malcolm_Campbell_dans_sa__Blue_Bird__à_Daytona_Beach_1933220px-Grave_of_Malcolm_Campbell

 

 

LA MIA COLLEZIONE DI PMW E VINTAGE ECONOMICI, SANTA MADRE RUSSIA

POLJOT VINTAGE cal. 2614-2h

In questo articolo vi parlerò di un orologio che, a quanto so, non è stato al polso di uomini impegnati in avvincenti imprese e avventure. È solo un semplice ed affascinante pezzo vintage facente parte della mia collezione che potrebbe aiutare chi è alla ricerca di un dress-watch datato e vorrebbe magari un sovietico. Vintage e sovietici sono due parole che, messe insieme, producono spesso risultati estremamente affascinanti quando trattasi di orologi.

Questo particolare pezzo rappresenta pienamente la longevità, la robustezza ed anche la precisione di una scuola orologiera che ci ha regalato dei segnatempo anche iconici, e che oggi permette a tutti di possedere e studiare orologi meccanici di elevata fattura rimanendo in budget contenuti. Una vera democrazia, arrivata paradossalmente da un paese che ai tempi di maggior splendore orologiero era sottoposto ad un regime politico dittatoriale.

La cassa di forma, denominata anche TV  e molto in voga negli anni 70, è placcata in oro, e la placcatura a distanza di oltre 40 anni è ancora perfetta, ulteriore punto a favore della cura costruttiva degli orologi russi. Le sue misure sono 38 mm di diametro, prese diagonalmente e senza considerare la corona, circa 9 mm di spessore e 18 mm fra le anse. La corona, anch’essa dorata, è a pressione, senza loghi. Il fondello in acciaio inox è tenuto in loco dal tipico sistema di chiusura degli orologi russi, ossia un anello anch’esso in acciaio che, avvitato, fa pressione sul fondello che a sua volta preme su una guarnizione. Questo sistema è mutuato dalla Boctock che per prima lo utilizzò negli Amphibia. Grazie a questa chiusura l’impermeabilita viene assicurata proprio dalla pressione indiretta sulla guarnizione che così è meno soggetta a deformazione soprattutto quando si apre l’orologio. Inoltre aumenta la funzione antimagnetica. Va da sé che questo orologio non è un diver, ma questa chiusura ne garantisce comunque una impermeabilità standard. Inciso sul fondello vi è un numero di serie che non è la referenza, ma un semplice numero che potrebbe indicarne appunto l’ordine seriale.

Il quadrante é bianco e piacevolmente lavorato come uno stretto reticolato (mi scuso per il termine poco tecnico), gli indici dorati applicati sono divisi fra loro dalle tacche dei minuti e le lancette a bastoncino sono dorate anch’esse, ma non quella dei secondi, nera. Le scritte sul quadrante sono in caratteri latini, ciò ci fa intendere che questo esemplare era creato per l’esportazione; per il mercato interno infatti i sovietici apponevano parole in cirillico. Non che fosse una regola fissa ma quasi sempre funzionava così. Al centro del quadrante, sotto le ore 12, il marchio POLJOT, sopra le ore 6 la scritta 17 JEWELS, tanto quanti i rubini del movimento, e sotto, sempre ad ore 6 ai margini del quadrante, l’indicazione MADE IN USSR.  La finestrella data è ad ore 3.20200209_151826

Il movimento è un carica manuale, il 2416-2h, molto simile al 2414 di Boctok, basico, senza fermo macchina e senza orpelli decorativi, ma robusto, preciso e potenzialmente eterno. Questo qui, pescato in un mercatino, dopo una semplice revisione ha ripreso a marciare e, ad una mia comparazione con un orologio digitale, guadagna circa 6 secondi al giorno. Davvero notevole!

Infine un veloce cenno al brand Poljot. Questo marchio era esclusivamente apposto agli orologi che uscivano dalla 1MCZ, acronimo di Prima Fabbrica Moscovita di Orologi, e fu creato per omaggiare il cosmonauta ed eroe nazionale Yuri Gagarin, primo uomo in orbita e possessore di uno Sturmanskie, all’epoca marchio di punta della fabbrica moscovita. Poljot in russo significa “volo”, in riferimento al volo spaziale di Gagarin. Alla caduta del regime sovietico la fabbrica conobbe varie peripezie fino, purtroppo, al suo fallimento. Tuttavia Poljot sopravvive ancora oggi grazie ad un consorzio di ex operai della fabbrica che hanno acquisito il marchio supportati da una holding Svizzera. La situazione in realtà non è molto chiara. Ad oggi gli orologi a marchio Poljot sono prodotti da una società tedesca che ripropone anche celeberrimi modelli del passato sovietico come i vari Strela, Sturmanskie ed Okean. Tra l’altro proprio a Strela apparteneva il cronografo Cosmos protagonista di una avventura nello spazio che spero di raccontare prossimamente.

OROLOGI DELL' AVVENTURA, SOL LEVANTE

SEIKO WORLD TIME A239-5000 E LA CONQUISTA ITALIANA DEL TERZO MONDIALE DI CALCIO NEL 1982

Questo è un blog che tratta di orologi  ed imprese epiche a cui sono associati. Quando pensiamo ad imprese epiche, nel nostro immaginario ci figuriamo grandi avventure verso il pericolo e l’ignoto. Del resto l’epica che tutti abbiamo studiato a scuola è proprio questo: Iliade, Odissea, Eneide per noi popoli mediterranei, il Raghnarot per i nordici, il Baghdavagida per gli Indù e così via….tutti questi poemi epici ci narrano di uomini in guerra, uomini in viaggio, uomini alla scoperta di nuove terre, uomini alle prese con le loro passioni. Naturalmente all’epoca dei grandi poemi classici non esistevano ancora gli orologi da polso, altrimenti sicuramente Ulisse avrebbe potuto portare un Sea Dweller e magari Achille un Glycine Incursore.

Ma non sempre, per usare il termine “epico”, occorre andare a cercare imprese che sfidano la morte. Per fortuna, per provare l’ebbrezza, il batticuore, la paura, l’esaltazione e tutte quelle emozioni testosteroniche che si possono percepire buttandosi in un assalto all’ arma bianca, non è  necessario fare le guerre, che tra l’ altro si combattono sempre più con l’elettronica, ma i morti sono purtroppo ancora esseri umani; esistono gli sport. “Epico” è un termine usato spessissimo in ambito sportivo, e con buona ragione. E fra tutti gli sport, il calcio è quello più popolare. Non che qualsiasi altra disciplina non sia in grado di donare emozioni epiche, ma il calcio, in certe circostanze, può ricreare una sorta di euforia planetaria. Di certo la manifestazione calcistica più totale e coinvolgente è quella che vede ogni quattro anni le nazionali di tutto il mondo affrontarsi in un unico torneo: i Campionati del Mondo Fifa World Cup. Ed oggi, prendendo spunto da un orologio, voglio raccontare proprio uno di questi mondiali, uno dei quattro vinti da noi italiani.

Mi sarebbe venuto molto più facile raccontare quello vinto nel 2006, essendo stato nel 1982 ancora troppo piccolo per poter avere ricordi in prima persona. Purtroppo però, l’ allora CT Marcello Lippi, indossava un orologio automatico Buti. Parliamo di un brand personale, che non so nemmeno se oggi è ancora attivo, nato proprio in quegli anni e che si colloca nella cerchia dei Fashion Watches, anche se, diamogli l’ onore delle armi, montava calibri ETA. Tuttavia, un orologio senza passato, che non ha avuto futuro, e troppo legato all’ apparire: non avrei potuto parlarne con sentimento, perché a me proprio non piace.

Ed invece mi piace, tanto da averlo inserito nella wish list degli orologi vintage che cercherò di avere in collezione, il SEIKO World Time A239-5000 che portava al polso il CT Enzo Bearzot durante tutta la fase finale dei Campionati Mondiali di Calcio del 1982,  vinti proprio dagli Azzurri. Seiko sponsorizzava l’evento ed era altresì fra gli sponsor della nostra Nazionale, logico dunque che il nostro CT ne indossasse un modello. Ora, qualche purista dell’orologeria meccanica, sopratutto se più giovane di 40 anni, potrebbe risentirsi del fatto che, ancora una volta, io abbia dato spazio e lodi ad un orologio al quarzo e perlopiù digitale. Potrebbe, se non tenesse conto del fatto che siamo in piena epoca del quarzo. Già da un decennio ormai gli orologi a batteria avevano praticamente soppiantato i meccanici. Gli orologi al quarzo erano la tecnologia più recente in fatto di movimenti, la gente cercava proprio questo: tecnologia all’avanguardia. Ed in un orologio anche comodità e precisione totale. Gli orologi al quarzo erano tutto questo, e la rivalutazione degli orologi meccanici era ancora molto lontana a venire. Di certo all’epoca si vedevano le cose in modo molto diverso da oggi. Enzo Bearzot

Tornando a noi, il SEIKO World Time A239-5000 fu il primo orologio digitale con mappa integrata per la visualizzazione di tutti i fusi orari del mondo.

s-l400-3Per poter visualizzare ora e fusi orari su un unico livello, lo schermo LCD era costruito con doppio strato. Altra funzione utile ed innovativa, la possibilità di impostare più  allarmi: sia con l’orario di casa che con le ore del mondo. Il primo esemplare di questo piccolo e geniale orologio nacque nel 1979, e si autoregolava, mediante tecnologia Global R-Wave sulla frequenza del segnale atomico di Fort Collins, in Colorado. I movimenti regolati tramite segnale radio erano in assoluto i più precisi e solo recentemente sono stati superati, quanto a precisione, dall’autoregolazione mediante segnale satellitare.

Prima del World Time gli orologi LCD con indicatore di fuso orario (restando in casa Seiko mi viene da annoverare gli h158 Pan Am e gli A708) montavano un secondo indicatore, più piccolo, sul display, che indicava il secondo fuso.      La cassa era in acciaio inox. 69750514_10216866487028462_7772162510920089600_n

Nel 1982, come detto,Seiko fu uno degli sponsor della manifestazione iridata, ed era anche sponsor e fornitore della nazionale italiana. Nazionale che arrivava alle fasi finali della rassegna praticamente già con le ossa rotte, e ciò riferito non alla condizione fisica ma a quella psicologica e morale. Paolo Rossi aveva appena finito di scontare ben due anni di squalifica per il suo coinvolgimento nelle tristi vicende del calcio scommesse, ed il CT Bearzot lo convocò in fretta e furia nella speranza di poter dare alla squadra il fuoriclasse che tanto abbisognava, e si era visto chiaramente nelle qualificazioni, in cui arrivammo secondi dietro la Jugoslavia, palesando limiti di gioco, mancanza di idee e talenti, e collezionando anche un paio si figuracce contro Danimarca e Lussemburgo. Su Rossi la nazione era divisa in due: chi plaudì la scelta di Bearzot era in netta minoranza rispetto a chi invece riteneva che un giocatore restato fermo per due anni non doveva entrare in quella squadra, invocando al suo posto la convocazione di Altobelli, che pure comunque venne portato in Spagna a giocarsi il Mondiale. Inoltre mancavano proprio i due attaccanti più forti del momento: Pruzzo e Beccalossi. Fra tutto questo, come tante volte è già accaduto, il CT si affidò ad un solido blocco di giocatore provenienti dalla Juventus, e questo, si sa, dà sempre validi motivi di mugugno a chi preferirebbe una rappresentativa più eterogenea, e del resto in quegli anni, in cui ancora gli stranieri potevano essere solo tre per squadra, di validi giocatori da nazionale ve ne erano tanti ed in ogni squadra di serie A.

Fatto sta che, quasi a dar ragione agli scettici, l’ Italia, nel primo girone, non entusiasmò affatto, ottenendo solo tre scialbi pareggi contro Polonia, Perù e Camerun e qualificandosi soltanto per una striminzita differenza gol.       La stampa ci andò giù dura, malignando di una presunta combine col Camerun e di una non meglio precisata “Amicizia Particolare” fra Antonio Cabrini e Paolo Rossi. Rossi che fra l’ altro fino a quel momento era stato evanescente, finendo sostituito a partita in corso due volte su tre dal tecnico che tanto lo aveva voluto in squadra. Tutti questi insulti da parte dei giornalisti indussero  Bearzot a far entrare la squadra in Silenzio Stampa.

Nel secondo girone eliminatorio (quel mondiale era impostato così) la fino ad allora piccola e nevrotica Italia capitò con le due nazionali più forti del mondiale: l’ Argentina campione in carica, con Maradona nel fiore degli anni, ed il Brasile di Zico, Falcao, Socrates. Ma da quel momento in poi successe qualcosa: contro l’ Argentina gli azzurri si scoprirono capaci di impostare un loro gioco, basato sulla nostra tradizione: marcature ad uomo asfissianti e rilanci. Fu così che batterono  l’ Argentina per 2-1 e, nella partita col Brasile, oltre ad una identità, la Nazionale ritrovò il suo bomber: Paolo Rossi ne fece tre, e mandammo a casa i brasiliani con un combattutissimo 3-2 da cardiopalma.

Le prime classificate dei secondi gironi eliminatori si ritrovarono così a disputare le semifinali. Germania-Francia ed Italia-Polonia le due sfide. Fra crucchi e mangiarane i 90 regolamentari terminarono su uno spettacolare 3-3, e furono solo i calci di rigore a far passare la Germania in finale.     Per l’ Italia, dopo le sfide da paura con Argentina e Brasile, il sorteggio parve essere favorevole, assegnandole una certamente ottima Polonia, ma che aveva già dato ed a cui mancava l’uomo simbolo, Boniek, squalificato. Ed infatti gli azzurri passarono abbastanza agevolmente, con un 2-0 e doppietta dell’ormai rinato Paolo Rossi.

Finale. Madrid. 11 luglio 1982. Italia-Germania Ovest. Ormai un classico, un derby, che riporta alla memoria collettiva quella fantastica partita finita per 4-3 otto anni prima, in un altro mondiale. L’ Italia ci arrivò senza il suo regista e uomo d’ordine a centrocampo, Antognoni. In più, dopo 8 minuti, anche Graziani fu costretto ad abbandonare il campo per infortunio. Al netto della sfortuna, Cabrini sbagliò un rigore, ed il primo tempo si chiuse sullo 0-0. L’italia aveva giocato meglio, ma aveva sprecato, e nel calcio esiste una legge non scritta che spesso punisce chi sbaglia troppo pur giocando meglio, e la paura che potesse accadere ciò era palpabile in tutti gli spettatori, sia allo stadio che davanti alle tv. Ed invece, nel secondo tempo, Gentile crossò dalla sinistra una parabola perfetta per la testa di Rossi: 1-0. Poi fu il turno di Tardelli: tiro da fuori, 2-0 E l’urlo di esultanza più famoso della storia sportiva. Ormai dominatori della gara, arrivò gloria anche per Altobelli autore del 3-0. Breitnen, per i tedeschi, siglò il gol del definitivo 3-1. Questi gli ultimi attimi di telecronaca di Nando Martellini: “…palla al centro per Müller, ferma Scirea. Bergomi. Gentile…. è finita! CAMPIONI DEL MONDO! CAMPIONI DEL MONDO! CAMPIONI DEL MONDO!”

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CASIO F91-W. IMPRESSIONI

Quando si parla di orologi digitali, nell’immaginario collettivo il Casio F91-W è forse quello che, più di tutti, salta alla mente.                                    Da quando, nel 1989, è stato messo sul mercato, è uno degli orologi più venduti in assoluto e non è stato mai modificato esteticamente né tecnicamente. È inoltre uno degli orologi più imitati e più falsificati.

Nella sua semplicità, ha con se tutte le funzionalità che si richiedono ad un cronografo digitale sportivo.

La cassa dell’orologio è in resina, e misura circa 31 mm di larghezza x 25 di lunghezza che diventano 39 mm se misurata “lug to lug”. Lo spessore è di 6 mm. La forma della cassa è molto particolare in effetti; ricorda le famose casse TV in voga negli anni 70 ed è difficile recensirlo con i termini appropriati, almeno per me, e per questo come per il fatto di non essere in grado di usare un linguaggio squisitamente tecnico, mi scuso con i lettori e rimando alla visione delle immagini allegate per una più esaustiva descrizione di questo oggetto.                                                             20190818_190552

Il quadrante é nero bordato da una linea azzurra ed una bianca. In alto a sinistra la scritta “CASIO”, a destra “F-91W” ed in basso l’indicazione “Water WR resist”. Al centro del quadrante troviamo lo schermo LCD contornato dalle indicazioni tecniche per il corretto uso dei pulsanti a pressione: “light” in alto a sinistra, “mode” a sinistra in basso, “alarm on-off 24 hr” in basso a destra mentre in alto a destra, in corrispondenza dell’unico angolo senza pulsante, la scritta “ALARM CRONOGRAPH”.                                               Il vetro è acrilico ed è posto a filo della cassa, il fondello invece è in acciaio inox, fissato alla cassa da quattro viti, e riporta incise la marca, il seriale, il modello, il materiale dello stesso, la dicitura “water resist” ed il luogo di fabbricazione. Il cinturino è in resina per una larghezza delle anse di 20 mm, dotato di fibbia ad ardiglione, in plastica, logata.

Vediamo ora più nel dettaglio le varie funzioni di questo sorprendente piccolo strumento di precisione.                              In condizione standard, sullo schermo vengono visualizzate l’ora (ore, minuti, secondi) in formato 12 o 24 ore, e la data (giorno della settimana e del mese).20190818_181347 Accedendo alla funzione Mode attraverso il pulsante in basso a sinistra si trovano gli allarmi. Tramite i pulsanti in basso a destra ed in alto a sinistra si possono impostare l’orario di sveglia e la sua attivazione, e la funzione snooze che fa suonare un bip ad ogni ora. La sveglia suona per un minuto all’ora impostata.             Premendo una seconda volta il tasto mode si accede al cronometro: può misurare un tempo massimo di 59 minuti e 59 secondi, dopo cui riparte da zero. Usando sempre i tasti light ed alarm il crono si stoppa, riparte, e si azzera.

È possibile visualizzare l’ora in formato 12 o 24 ore semplicemente premendo il pulsante di destra, mentre il pulsante in alto, tenuto premuto, attiva una bassa retroilluminazione.                                       È alimentato da una pila a bottone la cui durata dichiarata dalla stessa Casio è di circa 7 anni.

Il Casio F91-W è dichiarato semplicemente Water Resistent, quindi può sopportare gli schizzi d’acqua ma non potrebbe essere indossato sotto la doccia o durante il nuoto. Tuttavia in molti, compresi blogger e youtuber che trattano orologeria, affermano di usarlo a mare senza che l’orologio ne risenta. Probabilmente ciò che affermano è vero, considerando lo spessore molto sottile della cassa e lo stesso materiale sintetico di cui è composta, può sicuramente resistere a pressioni maggiori di quelle dichiarate.

Al polso è estremamente comodo, aderisce perfettamente ed è leggerissimo. Il cinturino permette di regolarlo a qualsiasi misura, ed è l’orologio ideale anche per i bambini.   20190818_190630 Attualmente si trova in commercio fra i 9 ed i 15 euro, un prezzo assolutamente onesto.

Una piccola curiosità: per l’ intelligence USA, se un sospetto terrorista islamico indossa questo modello, è molto probabile che si tratti di un innescatore di bombe. Infatti, purtroppo, questo orologio viene usato come timer nell’ assemblaggio di ordigni rudimentali. Lo stesso Osama Bin Laden è stato fotografato diverse volte con al polso un F91-W.                                                               Malgrado questa fama sinistra, il Casio F91-W è senza dubbio il must have per ogni appassionato. Un orologio iconico che non tradisce mai.

OROLOGI DELL' AVVENTURA, SWISSE WATCHES

BREITLING EMERGENCY E PRIMO GIRO DEL MONDO IN MONGOLFIERA

In questo articolo parlerò di uno dei pochi orologi a batteria che abbia scritto una pagina di storia nella categoria dell’avventura e delle grandi imprese umane: il Breitling Emergency,  e con lui l’equipaggio della missione Orbiter 3, il primo volo non stop in mongolfiera intorno al globo.

 

L’ orologio venne messo in commercio nel 1995 e fu il primo al mondo con Localizzatore Personale di Soccorso (PLB:Personal Local Beacon), dotato di trasmittente bifrequenza e conforme al Sistema Internazionale di Allarme via satellite denominato COSPAS-SARSAT che permette di lanciare gli SoS e di guidare le operazioni di ricerca. Tali caratteristiche sono talmente importanti che chi compra un Breitling Emergency è tenuto a firmare una liberatoria verso la casa Svizzera che da quel momento non è più responsabile dell’eventuale uso improprio che si può fare dell’orologio. Va fatto presente infatti che non è permesso lanciare allarmi per gioco. Chi lo facesse commetterebbe un reato penale di procurato allarme internazionale. Insomma, l’ Emergency va usato come un normalissimo orologio e solo in casi di comprovata emergenza può essere adibito alla funzione di salvataggio.         Il COSPAS-SARSAT è una rete di satelliti che orbita a quota bassa e geostazionaria, progettata per le operazioni di salvataggio. Dal 1986 ad oggi ha permesso di portare in salvo oltre 26mila persone. Ma cerchiamo di capire cosa succede quando viene lanciato un SoS tramite questo incredibile orologio.                                      Attivando la trasmittente bifrequenza, l’ Emergency invia un primo allarme a 406 mhz, che viene captato dai satelliti, e che viene ripetuto ogni 50 secondi. Subito dopo parte un secondo segnale sulle 121,5 mhz, la frequenza utilizzata dai mezzi di soccorso di terra e di mare, e che viene ripetuto ogni 0,75 secondi.     La progettazione di questa antenna richiedette studi e collaborazioni con enti di ricerca spaziale. L’ antenna del Breitling Emergency è unica, creata appositamente per questo orologio,  e detiene il record di più piccola ricetrasmittente al mondo.                          Il suo utilizzo è semplice ed intuitivo: basta semplicemente svitare l’apposito coperchietto e quindi estrarre le due antenne:

Per ottimizzare il dispendio energetico molto elevato dell’orologio, poi, fu progettata la prima batteria a ioni di litio ricaricabile. Se oggi i nostri telefonini vanno a batterie ricaricabili lo dobbiamo alla ricerca Breitling. Senza questa invenzione, chissà, i nostri cellulari sarebbero molto diversi da come li conosciamo.

La prima versione del Breitling Emergency esteticamente e tecnicamente si presenta con un peso di 140 grammi senza bracciale, con una cassa in titanio del diametro di 51 mm escludendo la corona. La resistenza all’acqua è di 50 metri, dotato di ghiera girevole su cui è indicata la rosa  dei venti, vetro zaffiro bombato e trattamento anti-riflesso. Sul quadrante, oltre al doppio orario analogico e digitale, si può accedere all’indicatore della riserva di carica, cronometro, timer, calendario, allarmi. Oltre al nero, i quadranti sono disponibili con colorazione gialla o arancio, mentre il cinturino può essere in acciaio o caucciù.                                                             Il movimento è un quarzo superiore prodotto in house denominato Breitling 76 e con certificazione COSC che ne attesta la precisione e la robustezza alle più dure condizioni climatiche, di temperatura ed a variabili come campi magnetici ed urti.

LA GRANDE TRAVERSATA IN MONGOLFIERA 

Orbiter fu il nome dato al grande progetto di girare il mondo per via aerea avvalendosi solo di una mongolfiera che sarebbe stata sospinta esclusivamente dalle correnti.                Le missioni Orbiter furono 3, tutte con al comando lo psichiatra Bertrand Picard, ideatore ed anima di questa audace esplorazione.                                      Il padre stesso di Bertrand fu un aviatore, mentre suo nonno Mario Picard fu un noto esploratore. La missione Orbiter valse a Bertrand (che è tuttora in attività come esploratore)  la conquista di ben sette record mondiali, compreso, appunto, quello più soddisfacente di tutti: essere colui ad aver compiuto il volo più lungo e senza mai scendere a terra con una mongolfiera, battendo avversari con disponibilità economiche enormi che prima di lui ci avevano provato senza riuscirci. Tutti plurimiliardari, fra cui Richard Brenson, patron del marchio Virgin, che, oltre che sui soldi, poteva contare sul know-how dei suoi tecnici della Virgin Airlines, ben nota compagnia di aeronautica civile.

La prima missione, la Breitling Orbiter 1, partì ufficialmente alle ore 6 del 12 gennaio 1997 e terminò dopo appena 6 ore con un ammaraggio di emergenza mel mezzo del mar Mediterraneo.             timthumb

Sembrò essere la volta buona l’anno dopo, quando, dopo la partenza in febbraio, il pallone volò senza intoppi tecnici fino al limitare dei cieli cinesi, dove tuttavia ricevettero dalle autorità di Pechino l’ intimazione a cambiare rotta poiché la Cina proibiva il sorvolo del suo spazio aereo. Questo contrattempo costrinse l’equipaggio della Orbiter 2 ad atterrare in Birmania dopo nove giorni dal decollo.

Le mongolfiere delle missioni Orbiter erano composte da palloni Roziere, forniti dell’omonima azienda che per l’occasione progettò questi palloni col preciso intento di renderli in grado di affrontare un giro del mondo. Il pallone misurava 55 metri di altezza ed era gonfiato da 28 cilindri di gas propano che alimentava sei bruciatori. L’ equipaggio aggiunse di propria iniziativa altri quattro cilindri.                  Cilindri, bruciatori e membri dell’equipaggio con i propri effetti personali, armadietti, stoviglie e provviste, attrezzature di bordo e cuccette dovevano stare in una gondola di 3,1 m di altezza e 5,4 m di larghezza e profondità. L’atmosfera della cabina poi doveva essere integrata da bombole di azoto ed ossigeno, mentre all’esterno vi erano montati i pannelli solari ed un dispositivo GPS.

Alle 8.05 dell’ 1 marzo 1999 Bertrand Picard Brian Jones partirono da un paesino sulle Alpi svizzere, Chateau d’Oex, a bordo della Orbiter 3. Alla loro partenza presenziò, fra gli altri, un nipote del grande scrittore Jules Verne, che all’inizio del secolo aveva scritto il romanzo di avventura Il Giro del Mondo in 80 giorni, in cui il protagonista Will Fog si impegnava a completare un giro del mondo in tale lasso di tempo avvalendosi dei mezzi più disparati, fra cui proprio una mongolfiera. Lo stesso Verne fu uno di coloro che si cimentò, fallendo, nell’impresa. Il nipote di Verne donò ai due piloti della Orbiter 3 la prima versione autografata da Verne stesso del romanzo, fino ad allora rimasta custodita nella biblioteca personale dello scrittore.

La routine di bordo prevedeva per ogni membro 8 ore ai comandi, 8 ore di lavori ed 8 ore di riposo. La cabina possedeva un impianto di riscaldamento, ma di notte la temperatura scendeva tanto da far ghiacciare l’acqua nei circuiti ed anche l’acqua potabile. Ogni giorno parte del lavoro consisteva nello sghiacciare l’acqua e tenere puliti i circuiti all’esterno. La dieta si basava su  cereali e latte in polvere.

Oltre al lavoro dell’equipaggio, anche la diplomazia svizzera dovette attivarsi molto per trattare con quei paesi che ponevano restrizioni ai voli, al fine di evitare un altro fallimento come quello dell’anno precedente in Cina.                     Diversi furono i momenti di difficoltà tecnica. Orbiter 3 incontrò un primo punto di “maretta”, assenza di vento, a ridosso dell’India. Ma la fortuna venne in aiuto una prima volta, facendo prendere al pallone la scia di una corrente che li porterà direttamente in Messico alla velocità mediadi 180 km/h. Tuttavia qui il mezzo venne preso da un vento che soffiava in direzione del Venezuela, il che avrebbe mandato l’aerostato troppo fuori rotta. La stessa cosa era già capitata a Richard Brenson. Fu così che Picard e Jones, resisi conto di essere ormai completamente in balia della corrente che avrebbe portato il pallone in Venezuela decretando un nuovo fallimento, tentarono il tutto per tutto. All’altezza dei Caraibi diedero fondo alle ultime riserve di propano per portare il pallone più in alto. La fortuna li aiutò ancora: a 10mila metri di altezza infatti intercettarono una corrente che li trascinò dritti in Africa.                            Alle 4.54 del 20 marzo atterrarono nel deserto egiziano, a pochi km dalle piramidi. Il giro del mondo era completato, dopo un volo di 19 giorni, 21 ore e 55 minuti, attraversando i seguenti paesi: Svizzera, Italia, Francia, Monaco, Spagna, Marocco, Mauritania, Mali, Algeria, Libia, Egitto, Sudan, Arabia Saudita, Yemen, Oman, India, Bangladesh, Myanmar, Repubblica popolare cinese, Taiwan , Giappone, Messico, Guatemala, Belize, Honduras, Giamaica, Haiti, Repubblica Dominicana, Porto Rico, Mauritania, Mali, Algeria, Libia, Egitto.

 

 

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VAGARY G.MATIC 101 unboxing ed impressioni

Vagary, come molti sanno, è un marchio controllato da Citizen che lo acquisì a sua volta da Veglia. Si può dire Vagary sia l’ outlet della tecnologia della casa madre. Ciò succede per tutti i grandi gruppi che possiedono brand di orologeria, come Rolex con Tudor o come nel gruppo Swatch.                                    Ovviamente Vagary non può certo essere messa sullo stesso piano di Tudor per qualità, modelli, storia. Fin qui si è limitata a produrre perlopiù orologi al quarzo molto easy, ma col G.Matic 101, a mio modesto avviso, ha compiuto un salto di qualità interessante, ed ha comunque le basi per farlo visto il know-how della casa madre.

La confezione, pur non essendo nulla di trascendentale, è comunque più gradevole rispetto alla stragrande maggioranza di orologi della stessa fascia di prezzo. All’esterno una scatola tubolare in cartone fa da rivestimento al vero contenitore in latta, scoperchiato il quale si arriva all’ orologio, in questo caso la referenza S117691 :   20190629_111800

L’ orologio è composto da una cassa in acciaio lucido, 40 mm di diametro fuori corona per circa 10 mm di spessore e 22 fra le anse, lunetta fissa con quattro intagli ad ore 3-6-9-12 ( quest’ultimo risulta leggermente più largo). Il quadrante di questa referenza è nero con indici color argento applicati ed i numeri arabi 6 e 12 nelle rispettive posizioni, ed il datario con data e giorno della settimana sia in inglese che in italiano.   20190401_213523                                                    Le lancette di ore e minuti sono rettangolari con all’interno una striscia di materiale luminescente, mentre quella dei secondi è più classica. Poco sopra gli indici inoltre vi è una lunetta interna con i segni che servono a suddividere il tempo in minuti e poco sopra dei pallini luminescenti per leggere l’ ora al buio. La luminescenza notturna tuttavia lascia un po’ a desiderare, e forse questo è l’unico difetto che mi sento di attribuire all’orologio.                                                   Il fondello è serrato a vite con movimento a vista. Movimento automatico Miyota 8200 a 21 rubini per 21.600 oscillazioni, cambio data rapido, non ha il fermo secondi  ed è resistente all’acqua fino a 5 atmosfere.   20190401_213708                    Il cinturino è in pelle.

Al polso l’orologio risulta davvero gradevole, silenzioso e sopratutto preciso: ad oggi, comparato con un orologio digitale al quarzo, ha guadagnato circa 3-4 secondi per una precisione dichiarata che si attesta fra -20 e +40 secondi al giorno.   20190511_193411

Per il prezzo di listino, 119 euro con cinturino in pelle 129 euro braccialato, questo orologio a mio avviso è grasso che cola. Può essere l’ideale per far avvicinare all’orologeria meccanica chi ancora non conosce questo mondo, ma è un bellissimo pezzo da avere anche per chi invece ha altri orologi magari più blasonati, perché, grazie al suo design classico, è indossabile in svariate occasioni e può essere un acquisto sfizioso senza doversi svenare. La qualità non manca di certo.

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ROLEX EXPLORER E CONQUISTA DELL’ EVEREST

Rolex è forse il marchio di orologi più iconico e famoso. Quasi tutti conoscono Rolex, anche chi non ha una conoscenza del mondo degli orologi. Rolex oggi è un brand che è sinonimo di lusso e successo. Indubbiamente questa grande iconicità garantisce all’azienda prestigio e fatturati. Il rovescio della medaglia è che troppi possessori di Rolex in realtà non sono coscienti del valore tecnico di questi grandi segnatempo: per loro è solo uno status symbol. E ciò inoltre favorisce il proliferare di falsi. Si stima che di tutti i Rolex in circolazione,  la maggioranza sia falsa. È mia convinzione personale, alla luce di ciò, che oggigiorno i Rolex siano grandi orologi portati troppo spesso da chi…non ama gli orologi.

Detto questo, La maison coronata è comunque, se non il top dell’alta orologeria, sicuramente sinonimo di ricerca, perfezione e indistruttibilità (quasi). Doti che si prestano perfettamente alla sponsorizzazione di imprese al limite delle capacità fisiche e intellettuali umane. E di sicuro occorre fisico e mente ferma per scalare la montagna più alta del mondo, la Dea del Cielo per i Tibetani. L’ Everest per noi occidentalicome George Everest, geografo inglese e governatore dell’India occupata di fine 800.

Il Rolex Explorer nasce nel 1953. Cassa monoblocco in acciaio 904L, una lega particolarmente avanzata usata dall’industria chimica a quella aerospaziale. Il quadrante nero è lavorato a mano, gli indici luminescenti emanano al buio un riflesso blu, così come le lancette. Il movimento è chiaramente di casa Rolex, il 3132, automatico con rotore bidirezionale, dotato di spirale parachrom e sistema antiurto paraflex, entrambi brevetti Rolex. Il movimento è certificato come rispondente ai più elevati parametri di precisione ed affidabilità in condizioni estreme dal COSC (Controle Officiel Suisse de Chronometres). Fondello e corona sono a vite, quest’ultima è impermeabilizzata con doppia guarnizione per una resistenza a 10 atmosfere/100 metri. Il margine di precisione giornaliera dichiarato è di +/- 2 secondi.

 

 

Se oggi il monte Everest, con i suoi 8848 m, è ormai diventato quasi una meta turistica, con agenzie che organizzano scalate di gruppo anche per non esperti, lo dobbiamo a chi, nel secolo scorso, ha sfidato l’ignoto ed i pericoli di una montagna che, ad oggi, ha fatto 307 vittime accertate fra chi ha tentato la scalata. I corpi di chi non è riuscito a tornare sono ancora lì, ed affiorano spesso fra gli escursionisti. Investiti da una valanga, caduti in un crepaccio, assiderati, asfissiati, morti per emboli, edemi, di pazzia…. sull’ Everest per morire c’è solo l’imbarazzo della scelta.                       5b5f38b7dce2e940008b4738-1136-852-1024x768 I primi tentativi di scalata da parte di spedizioni occidentali iniziarono negli anni 20. Nel 1921 una spedizione britannica con a capo Howard Bury raggiunse il Colle Nord. Una bufera di neve li costrinse a rientrare. In quella scalata, perse la vita Alexander Kellas. Un anno dopo, 1922, un’altra spedizione britannica raggiunse quota 8326 metri (la vetta è di 8848 m). Anche in questo caso fu il maltempo a sconfiggere gli alpinisti. Una slavina travolse ed uccise sette fra gli sherpa nepalesi aggregati alla missione.

 

Nel 1924 ci provarono Edward Mallory, che già aveva fatto parte della squadra del 1922, ed Andrew Irvine. Non ritornarono indietro. Soltanto 77 anni dopo, nel 1999, venne rinvenuto il corpo di Mallory, a pochi metri dalla vetta. Molti ritengono che in realtà furono proprio i due sfortunati scalatori a raggiungere per primi la cima del monte, e che la morte li abbia colti durante la discesa. Ad avallare ciò, furono le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Mallory prima dell’impresa: egli disse che, se fosse arrivato in cima, avrebbe lasciato lì la foto di sua moglie che teneva sempre con sé. Foto che non fu rinvenuta addosso al cadavere.

Nel 1933 la spedizione Houston riesce a sorvolare l’ Everest su un biplano a motore. Quella fu anche la prima volta di Rolex: i due piloti portavano infatti ai polsi un Oyster.

Soltanto nel 1952 si ritornò a sfidare la montagna più alta del mondo. Stavolta ci provarono degli svizzeri capeggiati da Edward Wiss. Il capo degli sherpa era Tenzing Norgay, considerato la più esperta guida vivente. E Norgay effettivamente portò il gruppo ad 8595 metri, quando, di fronte alla prospettiva di morte certa in caso di assalto agli ultimi metri, dovettero tutti insieme prendere atto di essere ormai troppo stremati per continuare, e tornarono al campo base.

Siamo così al febbraio del 1953. A Kathmandu, nell’ ambasciata britannica, 15 alpinisti con a capo John Hunt e 20 sherpa guidati ancora da Norgay, partirono per l’ennesimo tentativo. Il 27 marzo arrivano a Tengboche, un villaggio a 3867 metri che è l’ultimo posto abitato alle pendici del monte. Qui si riposarono fino al 17 aprile, per poi cominciare la scalata finale. Arrivati a circa un km dalla vetta, il capo spedizione scelse due alpinisti per completare la scalata. I due arrivarono a soli 100 metri dalla fine, ma dovettero ritornare indietro perché rimasti a corto di ossigeno. Il giorno seguente, un neozelandese, sir Edmund Hillary, chiese al capo di poter provare lui la scalata. Lo accompagnò proprio lo sherpa Tenzing Norgay. Alle 11.00 del 29 maggio i due sono in cima. Hillary pianta una croce, Norgay seppellisce del cibo per i suoi dei, insieme mangiano della cioccolata calda con biscotti e, 15 minuti dopo, iniziano la discesa, per entrare insieme nella leggenda. L’ Everest era conquistato!

 

 

 

SOL LEVANTE

STORIA DI SEIKO 5

Seiko 5 è una linea di orologi da polso appartenente a Seiko, nata con un fine nobile e preciso: rendere accessibili gli orologi automatici a chiunque, e fornendo un prodotto di qualità e di durata nel tempo. Ed io sono testimone della longevità di questi orologi, possedendo i modelli che potete vedere in foto in questo articolo

 

 

La storia di Seiko iniziò nel 1881, quando un imprenditore di 22 anni, Kintaro Hattori, aprì un negozio che vendeva e riparava orologi e orologi nel centro di Tokyo. Oggi, dopo oltre 130 anni di innovazione, l’azienda di Kintaro Hattori è ancora dedita alla perfezione che il fondatore ha sempre cercato di raggiungere.

Il Seiko 5 nasce nel 1963, con il nome di Sportsmatic 5 (studiato per rendere il lusso di un orologio automatico accessibile a tutti), quest’orologio al momento della sua produzione riusci a fissare un nuovo standard per gli orologi meccanici.  Infatti, il meccanismo prevedeva la combinazione tra un movimento automatico e un orologio meccanico resistente all’acqua, e, primo orologio in assoluto, con possibilità di visualizzare data e giorno da un’unica finestrella sul quadrante.

 

Dopo che venne prodotto lo Sportsmatic nel 1963, grazie al suo successo, negli anni ’70 arrivarono i primi modelli di segnatempo della serie 5 di Seiko. Questa serie però non si chiama così perché si è scelto un numero a caso, ma perché ci sono delle funzioni e caratteristiche che accomunano tutti questi orologi.

Innanzi tutto la prima cosa che è possibile notare e che tutti i Seiko 5 possiedono appunto cinque funzioni che li rendono parte di un’unica grande famiglia.

Ogni Seiko Serie 5 ha:

Un movimento a carica automatica

la funzione Day/Date espressa in un sola finestrella sul quadrante

Resistenza alla pressione dell’acqua(Water Resistant)

Corona montata dietro le ore 4

Bracciale e cassa durevoli

Dunque al momento della creazione della Serie 5, furono questi i punti principali che portarono poi alla scelta del nome. Sono certo che questa linea sia tra le migliori prodotte da Seiko, tant’è che prima della sua produzione l’azienda giapponese ne studiò ogni minimo dettaglio al fine di dare ai suoi clienti un orologio dal design sportivo e innovativo ma anche molto resistente a urti e graffi.

Per far sì che quest’orologio fosse realmente resistente, decisero così d’introdurre anche la resistenza all’acqua, ottenendo lo standard Water resistant.  Dopo di ché portarono per la prima volta la funziona Day&Date in un unica casella per dare maggiore visibilità al quadrante dell’orologio.

Una caratteristica, non citata tra le 5 ma che ha sicuramente portato un punto di maggior pregio all’orologio è la molla Diaflex realizzata in una lega infrangibile e utilizzata per proteggere il movimento automatico dell’orologio.

Grazie all’introduzione anche nei Seiko 5 del ’Magic Lever’ chi indossava orologi Seiko usava raramente la corona, quindi pensarono di “nasconderla” dotto il bordo della cassa e la posero a ore 4, mettendo così la firma su questo progetto avveniristico e dando inizio alla leggenda della serie “Seiko 5”

 

OROLOGI DELL' AVVENTURA, SWISSE WATCHES

OMEGA SPEEDMASTER MOONWATCH E PRIMO UOMO SULLA LUNA

Non potevo non inaugurare questo spazio parlando dell’impresa che più resta nell’immaginario collettivo, lo sbarco dell’uomo sulla Luna, e dell’orologio che lo accompagnò non solo nel fatidico allunaggio, ma in tutto il percorso di preparazione, e in quelli successivi.

La più leggendaria impresa dell’uomo fu la conquista dello spazio, ed il culmine fu quando, il 20 luglio 1969 Neil Armstrong mise per primo il piede sulla Luna. Ad accompagnare lui e gli altri due astronauti della missione Apollo11,  Omega Speedmaster calibro 321 referenza 105.12-65, da quel giorno soprannominato Moonwatch, il primo orologio sulla Luna.

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Lo Speedmaster è un cronografo a carica manuale, con ghiera con scala tachimetrica. La cassa misura 42 mm, le lancette rivestite in superluminova per la visione notturna, vetro in esalite. Venne prodotto dal 1957 e dal 1965 è l’orologio ufficiale della nasa. Il primo movimento montato era un calibro 321, successivamente 861 che fu poi migliorato con i calibri 1861 e 1863.
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La prima volta di uno Speedmaster nello spazio fu nel 1965: l’astronauta Walter Schirra portò il suo Omega personale in un viaggio in orbita. Quando la Nasa cominciò a preparare le missioni Apollo per raggiungere la Luna, valutò molti grandi orologi per fornire i suoi astronauti. Alla fine, superarono le selezioni solo in tre: un Rolex Daytona calibro valjoux72, un Longines Wittnauer 13zn e l’Omega Speedmaster321.
I tre orologi furono sottoposti a test sulla temperatura: dovettero affrontare 48h a 71°C e 4h a -18°; 240h fra 20° e 71° con 95% di umidità, 6 urti da 40G, e poi test con forti accelerazioni, decompressione, vibrazioni, rumori ed 1h ad 1,6 atmosfere.
Il Longines si deforma durante i test di decompressione e di atmosfera. Il Rolex si ferma nei test di accelerazione e di umidità. L’ Omega prende 21 minuti nei test di accelerazione e ne perde 15 durante la vibrazione, ma supera indenne le prove, e sarà dunque l’orologio ufficiale della spedizione sulla Luna.
Il 20 luglio 1969, al polso dell’astronauta Buzz Aldrin (Armstrong aveva lasciato il suo a bordo), arriva sulla Luna.

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Ma la missioni Apollo non finiscono con lo sbarco sulla Luna, e lo Speedmaster è ormai membro fisso di ogni missione. E raggiunge l’apoteosi durante la missione Apollo 13.                                      L’ 11 Aprile 1970 infatti la missione Apollo 13, composta dagli astronauti Jim Lovell, Jack Swigert e Fred Haise,  deve rinunciare a sbarcare sulla Luna a causa di pesanti guasti tecnici.                   Non resta altro da fare che invertire la rotta per tornare sulla Terra, ma senza strumenti di bordo, si dovette calcolare la rotta solo con calcoli matematici, e l’ Omega doveva servire a misurare la variante tempo di tali calcoli. Il minimo errore avrebbe comportato un allontanamento fatale dalla giusta traiettoria verso casa.

L’orologio tenne benissimo il tempo, tanto da meritarsi lo Snoopy Awards, la più alta onorificenza che la Nasa riconosce ai propri astronauti

 

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