È arrivato per me il momento di parlare di un altro orologio che è una icona universale, e che rientra nella categoria di Orologi dell’ Avventura non propriamente per meriti sul campo (sebbene sia stato indossato in pista, da Paul Newman fra gli altri), ma piuttosto come orologio volto a celebrare un evento o, in questo caso, un luogo simbolo per un certo tipo di uomini d’azione. È la stessa cosa che abbiamo già visto in questo stesso blog con il Rolex Explorer, nato come oggetto celebrativo alla conquista dell’ Everest e che invece, complice il marketing e la stessa importanza del marchio, è diventato per tutti l’ Orologio che è stato sull’ Everest, a discapito di chi in quella spedizione c’era veramente, ossia gli Smith ed un altro Rolex, questo sì un vero orologio per avventurieri, almeno nella prima metà del XX secolo: il Rolex Oyster, indossato anche dallo stesso Malcom Campbell durante tutte le sue gare. Per chi volesse approfondire circa la conquista dell’ Everest e circa il Rolex Explorer, il rimando è all’ articolo proprio: https://adventurewatches.wordpress.com/2019/06/17/rolex-explorer-e-conquista-dell-everest/, mentre per ciò che concerne i vari Smith ed Oyster e tutti gli altri meno conosciuti, mi riservo di parlarne senz’altro in futuro, e sarà proprio allora che, secondo le mie aspettative, questo blog dovrebbe entrare nel vivo. Oggi è però necessario cominciare con orologi più conosciuti ed iconici sia per una questione di algoritmi di ricerca, che per una questione pratica di visibilità. Ma anche, e non meno importante, per una questione mia personale di preparazione.
Il Rolex Oyster (Perpetual) Cosmograph Daytona nacque ufficialmente nel 1963 come cronografo professionale per piloti da corse automobilistiche. Oggi le sue caratteristiche peculiari sono la lunetta in ceramica (Cerachrom) con scala tachimetrica, I pulsantini avvitabili ed un calibro automatico di manifattura denominato 4130, con riserva di carica fino a 72 ore data da una molla di carica più grande rispetto al passato. La cronografia viene azionata da ruota a colonne. Naturalmente questo orologio ha subito tante modifiche dal 1963 ad oggi come molte sono le varianti.
Il nome Daytona omaggia la pista automobilistica di Daytona Beach, in Florida, molto famosa anche in virtù degli 80 record di velocità, 14 mondiali, ivi stabiliti negli anni che vanno dal 1903 al 1905. Dal 1959 venne inaugurata la nuova pista Daytona International Speedway, dove ancora oggi si corre la Rolex 24h at Daytona, più semplicemente nota come The Rolex.
Va detto che, come ovvio, la Rolex produceva cronografi già da prima del Daytona. La loro produzione effettiva cominciò verso la metà degli anni ’30. Come detto, il primo vero Daytona riconosciuto ed accettato come tale, fu costruito nel 1963 e la sua referenza era la 6239, ma occorre segnalare un altra referenza, ben conosciuta da collezionisti ed appassionati, che apparve nel 1961 e che, sia esteticamente che tecnicamente, era molto simile alla 6239: trattasi della referenza 6238, da tutti conosciuta come la pre-Daytona.
Tornando alla 6239, essa venne prodotta fino al 1968. Aveva pulsanti a pompa e lunetta con tachimetro in oro o in acciaio. Nei primissimi esemplari la scala tachimetrica era suddivisa in 300 unità/tempo, ma venne quasi subito abbassata a 200 nei pezzi a seguire. Il quadrante era molto incentrato sul contrasto cromatico fra i contatori ed il resto del dial (il cosiddetto “panda”), e la famosissima scritta rossa “Daytona” in realtà su questa prima referenza appariva solamente negli orologi destinati al mercato americano. Il movimento era il Valjoux 72B, a carica manuale, a cui Rolex apportò le sue modifiche rinominandolo Rolex 722. Questo, per l’epoca, nuovo cronografo, venne accolto assai freddamente dal pubblico, tanto che nel 1965 gli venne affiancata la referenza 6240, che si differenziava sia nella lunetta in plastica, sia nei tasti e nella corona non più a pressione ma a vite. Venne inoltre aggiunta sul quadrante la dicitura “Oyster”. Tuttavia questa versione fu snobbata anche più della prima, ed i pochi possessori lamentavano la sua ingombranza ed il fatto che i nuovi tasti avvitabili rovinassero i polsini delle camicie.
Passando dal 1969 con la referenza 6241, arriviamo agli anni ’70 ed ’80 in cui si accavallarono e si succedettero diverse versioni, ma comunque sempre a carica manuale. Nelle referenze 6262 e 6264 il calibro 722 lasciò il posto al 727, un calibro sempre di derivazione Valjoux. Tornarono i tasti a pompa e nelle referenze 6263 e 6265 l’ impermeabilità venne aumentata fino a 100mt. La sostanziale differenza del nuovo calibro 727 rispetto al suo predecessore era la frequenza di 21.600 alternanze contro le 18.000 del 722. I calibri incassati nei modelli in oro furono certificati COSC e tale qualità, ancora molto rara nei crono, venne rimarcata scrivendolo, nei modelli in oro appunto, ad ore 12. Inoltre cominciarono a vedersi le prime “pacchianerie” come diamanti e zaffiri, ad esempio nella referenza 6270. Da segnalare i famosi quadranti Paul Newman contraddistinti dal netto effetto panda e dai contatori realizzati con un quasi impercettibile dislivello. Anche i Paul Newman rimasero a prendere polvere dai concessionari per lunghi anni. Quasi nessuno li voleva e fu solo nel momento in cui i collezionisti li rivalutarono che raggiunsero il successo e le cifre folli che oggi tutti possiamo constatare.
Dal 1988 avvenne una prima vera rivoluzione nel meccanismo dei Daytona. A partire dalla referenza 16520 venne adottato un calibro non più a carica manuale, ma automatico. Partendo dal calibro 400 El Primero, di fornitura Zenith, si ottenne il Rolex 4030. Le modifiche più importanti apportate da Rolex furono la riduzione delle alternanze, che furono portate da 36.000 a 28.800; nuovi dadi di regolazione; spirale Breguet e carica automatica di tipo Perpetual. Il nuovo Daytona, detto anche Daytona-El Primero si avvalse della certificazione COSC, come indicato dalla scritta sul quadrante: Superlative Chronometer Officially Certified. Le modifiche estetiche più evidenti furono nella scala tachimetrica incisa sulla lunetta e nei pulsanti a vite, così come la corona. I quadranti disponibili erano in due versioni cromatiche: bianchi oppure neri, con subquadranti a contrasto. Oltre che alla versione in acciaio, erano sul mercato anche la referenza in acciaio-oro o completamente in oro. La produzione del Daytona-El Primero continuò fino al 2000, quando venne definitivamente interrotta per far spazio alle nuove referenze a sei cifre.
La prima referenza del nuovo corso fu la 116520, interamente prodotta in house, a partire proprio dal nuovo movimento, anch’esso automatico: il 4131, sempre certificato COSC, 28.800 alternanze e spirale di tipo Parachrom. La disposizione della corona e dei pulsanti era, seppur impercettibilmente, variata. I contatori rialzati, gli indici più corti, il rehaut interno che portava inciso il marchio Rolex ed il numero di serie, ed il bracciale che era di tipo oyster. Persino nei materiali si ricorse a qualcosa di inedito e brevettato appositamente: la cassa era costruita in una nuova lega di acciaio con il 4% di molibdeno e denominata 904L, creato in esclusiva per Rolex dalle acciaierie del gruppo Tyssen. Ormai il Daytona era diventato il mito che conosciamo. Non più un orologio, per quanto importante, iconico e costoso, desiderato per la sua storia, la sua qualità e, perché no, per il suo brand. Ormai Rolex è status symbol, ed il nuovo Daytona è il nonplus ultra agli occhi sì di molti intenditori, ma sopratutto agli occhi di coloro che io chiamo “burini arricchiti (o burini finti arricchiti)”, che magari indossano con la stessa nonchalance un orologio falso ed uno da 50mila euro, purché sul quadrante ci sia un logo a forma di corona ed il marchio “Rolex”. E la casa ginevrina sembra dal canto suo incoraggiare proprio questo target, come si evince non solo dalla strategia commerciale e produttiva ma anche dalle tante versioni di Daytona-Sei Cifre con pietre preziose. In occasione del 50esimo anniversario di questo cronografo venne prodotto il primo Daytona in platino, nel 2013.
Sir MALCOM CAMPBELL (11-3-1885/31-12-1948)
L’eroe legato a questo orologio, pioniere delle corse automobilistiche e dei record di velocità su veicoli a motore, in pista terrestre prima ed acquatica dopo, è Malcom Campbell. Che, come detto, in realtà non avrebbe mai potuto indossare un Rolex Daytona, dal momento che visse qualche decennio prima. Un Rolex comunque lo indossava: il classico Oyster molto in voga a quei tempi fra sportivi estremi. Ed alla pista di Daytona, che in seguito darà il nome al cronografo in questione, legò gran parte della sua carriera sportiva, dove corse alcune fra le gare più importanti della sua vita, vivendo grandi gioie e terribili perdite come quella dell’amico e rivale Frank Lockhart al termine di una gara epica.
Malcom Campbell non era un pilota professionista, a quei tempi era impensabile vivere di corse automobilistiche. Sfruttò inizialmente il patrimonio di famiglia, e successivamente la professione di commerciante prima, e di ufficiale dell’ Esercito di sua Maestà poi. Alla luce di ciò, le sue imprese assumono maggior valore in quanto compiute da dilettante. La famiglia di origine era agiata, dedita al commercio di diamanti, e lui ne era figlio unico. La passione per la velocità lo mise nei guai fin nella prima infanzia, quando, insieme al suo amico e anche lui futuro pilota Sammy Davis, si lanciarono con una rudimentale bicicletta da una collina, mettendo in pericolo numerosi passanti. La bravata gli costò un richiamo ufficiale in un tribunale minorile. Dopo il diploma, il padre, al fine di dare un pò di disciplina al figlio scavezzacollo, lo mandò a lavorare gratuitamente ai Lloyd’s, quello che oggi chiameremmo “tirocinio non retribuito”. Ma, insoddisfatto, si trasferì da parenti in Germania dove iniziò ad imparare anche lui il commercio di diamanti. Coi guadagni poté partecipare alle prime corse in moto. Acquistò la prima nel 1902 e nel 1906 vinse la Londra-Edimburgo, ripetendosi nel 1907 e nel 1908. Nel 1909 costruì due aerei. Uno riuscì a farlo volare, andandosi a schiantare e distruggendolo completamente. Essendo gli aerei troppo onerosi anche per un buon commerciante come lui, passò dunque alle automobili. La sua prima auto fu una Renault 30HP, con cui corse per la prima volta a Brooklands. In seguito acquistò una Darraq da 34cv che battezzò “The Flapper”. Fu la macchina che gli regalò la prima vittoria nel 1910. Dopodiché acquistò una Peugeot ed una Darraq Sunbeam quasi nuova. In seguito ebbe a dire che la Peugeot gli aveva portato fortuna, e la Darraq solo guai. Forse era ironico, perché la Darraq fu per lui come un destriero che lo accompagnò verso la gloria. Era dotata di motori da 10.500cm3 per una potenza di 60hp. Inizialmente battezzata come “The Flapper II”, quando assistette ad una opera teatrale chiamata “The Blue Bird”, la ridipinse di blu e la battezzò The Blue Bird. Era appena nata una leggenda!
Dal 1910 in poi cominciò anche a diventare azionista dei GP in cui correva. Nel 1912 ebbe il suo primo incidente a Brooklands: perse simultaneamente una ruota anteriore ed una posteriore, riuscendo tuttavia a riportare la macchina ai box. Nel 1913, ancora a Brooklands, vinse la 100 miglia.
Nel 1914, in occasione della prima guerra mondiale, entrò nell’esercito, nel quale avrebbe servito per tutta la vita. Inizialmente fu assegnato al Queen’s Own Total Kent Regiment, nelle cui fila combatté la Battaglia di Mons, per poi passare alla RAF, dove ottenne il grado di maggiore ma, malgrado la sua competenza e passione per gli aerei, non venne ritenuto idoneo ai caccia da combattimento, e fu quindi assegnato a voli di rifornimento.
Gli anni successivi alla fine del primo conflitto mondiale videro il nostro dedicarsi maggiormente alla vita privata. Nel 1920 infatti convolò a seconde nozze e mise su famiglia, avendo due figli. Donald, il primogenito, seguì le orme paterne diventando anch’egli pilota e morendo in pista nel 1967. Anche la figlia di Donald, Gina, si dedicò per qualche tempo alle gare di velocità con scafi in acqua. Quanto a sir Malcom, la famiglia non gli impediva certo di correre, anzi, fu nel 1922 che battè per la sua prima volta un record di velocità, che all’epoca era di 133 miglia/h, ma non fu omologato dai giudici e quindi non è un record ufficiale. Stesso discorso a Fanø: record battuto, ma non omologato dai giudici. Sempre a Fanø, nel 1924, prima della gara ebbe molto a lamentarsi coi giudici perché a suo dire la pista era pessima ed il pubblico troppo accalcato alla strada. Tuttavia alla fine accettò di correre e, per un tragico scherzo del destino, fu proprio la sua auto a perdere per due volte la stessa ruota che, alla seconda volta, colpì in pieno un ragazzino di 14 anni, uccidendolo.
Passò i restanti mesi del 1924 in officina, a migliorare la BlueBird, e finalmente, il 25 settembre, stabilì il record di velocità, stavolta ufficiale, a Pendine Sands: 146,16 miles/h, pari a 235,17 km/h. A luglio del 1925 innalzò il suo stesso record a 150,8 miles/h, ma appena nel marzo del 1926 Henry Seagrave lo battè.
Campbell decise pertanto di progettare personalmente una nuova vettura, con l’ausilio dell’ingegnere Napier: la Napier-Campbell, partendo dal telaio della Blue Bird, che divenne dunque la Blue Bird II. Proprio nel 1926 il record di velocità venne infranto varie volte,mentre Campbell lo passò tutto lontano dalle piste, intento a perfezionare la Napier-Campbell.
Il suo ritorno in pista, che coincideva ovviamente con il debutto ufficiale della nuova vettura, si ebbe il 4 febbraio 1927 a Pendine Sands. Corse ed alla prima gara si riprese il primato mondiale, stabilendo un nuovo record di velocità: 174,88 miles/h, pari a 281,44 km/h. Nella seconda gara il pilota, e precedente record-man, Parry-Thomas, fu assolutamente determinato a stabilire lui un nuovo record ma purtroppo perse il controllo della vettura andando a perdere la vita. Campbell accusò molto male questa tragedia, e giurò a se stesso che mai più avrebbe corso a Pendine Sands.
Il 29 Marzo 1927, a Daytona Beach, fu un altro grande pilota ad infrangere il record: Seagrave. Erano quelli anni di enormi progressi tecnologici. In ambito automobilistico si succedevano a ripetizione nuovi prototipi e ciò faceva sì che il mondo delle corse fosse totalmente coinvolto da questa ansia adrenalinica di migliorare ed essere i primi in qualcosa. Per i piloti era ormai un’ossessione: ad ogni gara ognuno di loro non solo si aspettava di vincere. Vincere non bastava. Quello che realmente contava era stabilire nuovi record. Vedere il proprio nome associato ad un primato da lasciare ai posteri. Ma i primati venivano infranti al ritmo di ogni gara. Campbell dal canto suo era forse il più ossessionato dalla velocità, ed essere uno dei tanti non gli bastava. Voleva assolutamente riprendersi il record e a tale scopo sfruttò la sua posizione di pilota militare per farsi concedere dal Ministero dell’Aeronautica il motore dell’ idrocorsa Submarine S5: un W12 da 875 cavalli. Ancora una volta la sua vettura subì sostanziali modifiche, tanto da essere rinominata BlueBird III.
Il 19 febbraio 1928 cominciò una annata epica per le corse. A Daytona Beach si sfidavano per la prima volta Lord Campbell con la sua nuova BlueBird III; Ray Keech sulla White Triplex Special e Frank Lockhart alla guida della Stutz Black Hawk Special. In quella prima gara fu Campbell a vincere e segnare il nuovo record: 206,95 miles/h (333,05 km/h).
Il 22 aprile fu Ray Keech a vincere la corsa e segnare il nuovo record: 207,55 miles/h pari a 334,95 km/h. A Daytona Beach.
Il 25 Aprile, alla prima corsa di quella gara, fu Frank Lockhart a vincere, senza tuttavia battere il record per soli 7 km/h. Alla seconda corsa Lockhart era di nuovo in testa quando un suo pneumatico esplose, l’ auto si ribaltò e per lo sfortunato atleta non ci fu purtroppo niente da fare. Era la pista di Daytona Beach.
Nel 1929 Campbell e Napier progettarono una nuova vettura. Intorno al potente motore della BlueBird III era loro intenzione fabbricare una carrozzeria che sfruttasse al massimo i principi conosciuti dell’ aerodinamica. La vettura fu costruita nei cantieri Arrolaster e venne pertanto battezzata come Campbell-Napier-Arrolaster. Con questa macchina Campbell intendeva correre esclusivamente per stabilire nuovi record di velocità. Per far ciò aveva bisogno di una pista, che cercò in Africa, effettuando vari voli di ricognizione in elicottero. Dopo diversi problemi e pericoli scampati, come l’essere fuggito per poco a dei tuareg ostili in Mali, dove aveva trovato la sua pista ma senza poterla utilizzare, scelse la salina di Verneukpan, in Sudafrica. I giorni di preparativi furono travagliati. Campbell si schiantò col suo piccolo aereo, senza comunque riportare danni seri. La vita nel campo era resa dura dai 42°C di media, da animali velenosi come serpenti e scorpioni, e dalle condizioni climatiche estreme di quel posto.
Finalmente a marzo, dopo oltre un mese di lavori, il campo fu pronto, ma la pista lasciava molto a desiderare: il vento creava dei turbini di polvere ed il sole, come anche il gran caldo, davano miraggi. Dal terreno spuntavano in continuazione pietre molto affilate e le buche lasciate da quelle che si riusciva a togliere non vennero chiuse. Su un tale terreno era sufficiente una minima incertezza, anche una mano non abbastanza ferma nel tenere il volante, per andare incontro a morte sicura. Intanto, ad innalzare ulteriormente il livello di difficoltà, ci si mise Seagrave che l’11 marzo segnò il nuovo record: 231,36 miles/h (372,34 km/h). Alla fine Campbell corse, ma non riuscì a battere il record assoluto.
Deluso da questo insuccesso, Campbell riportò la vettura in patria dove venne ancora una volta sottoposta a pesanti modifiche: nuovo motore Napier-Lion da 1450 cv sovralimentato e nuovo assetto aerodinamico. L’auto venne chiamata Campbell-Railton BlueBird ed il 22/2/1933, ancora una volta a Daytona Beach, si riprese il record assoluto di velocità toccando le 272,46 miglia/h (438,39 km/h). Dopo questo record si prese ben due anni di pausa dalle gare col solo intento di migliorare ulteriormente la vettura e, il 7 marzo 1935 a Daytona portò il record a 276,82 mil/h, pari a 445,40 km/h. Ma il suo vero obiettivo non era più essere semplicemente il numero uno. Lui voleva ora essere il primo uomo al mondo a superare le 300 miglia orarie, ovviamente su pista. E così, stavolta nella piana di Bonneville, il 3 Settembre 1935, stabilì il primato inseguito per tutta una vita: 301,82 miglia orarie, corrispondenti a 445,40 km/h.
Dopo questo risultato, Sir Campbell si ritirò dalle corse automobilistiche, ma semplicemente per dedicarsi alle gare su natanti. Si fece costruire un idroplano, ci montò il motore della sua ultima auto e lo chiamò BlueBird K3. Anche in questo mondo vinse e stabilì dei record, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in cui gli venne assegnato l’altissimo onore di comandare il contingente incaricato dell’evacuazione, della Regina e di tutta la Famiglia Reale, nel caso di invasione nazista.
Al termine della guerra ritornò a gareggiare con le barche, ma la sua non era più competitiva e, ormai stanco ed appagato, si ritirò per sempre. Oltre che essere pilota e soldato, Sir Campbell si dedicò marginalmente alla politica e scrisse 5 libri autobiografici: My Great Adventure Speed (1931); The Romance of Motor Racing (1936); The Pearl From The Air (1937); The Road and The Problem of Their Safety (1937); My Thirty Years of Speed (1937). Morì il 31 dicembre del 1948 per emorragia cerebrale e fu sepolto a Chislehurst, nella chiesa di St. Nicholas.